di Luca Ngoi
Sono state nuovamente le Olimpiadi di Team USA, che vogliate
o meno aggiungerci un “Dream” all’inizio. Sta di fatto che lo strapotere a
stelle e strisce è andato di scena anche a Londra, dimostrando che fino a
quando scenderanno in campo quelli veri pensare a un piazzamento superiore al
secondo posto per tutti coloro che non hanno scritto “USA” sulle maglie sarà
quantomeno improbabile. Anche questa edizione dunque non ha fatto eccezione,
con un cammino che ha visto Lebron e compagni attraversare senza grandi
difficoltà sia la fase a gironi (nella quale hanno sofferto solo con la
Lituania) sia la fase ad eliminazione diretta, nella quale hanno avuto la
meglio dell’Australia prima e dell’Argentina poi prima di scontrarsi in finale
con la Spagna.
Già, la Spagna di Sergio Scariolo, la squadra che più di
tutte (insieme alla già citata Lituania) ha saputo stare in partita e
giocarsela con quelli che possiamo tranquillamente battezzare come veri e
propri marziani del campo da gioco. Le Furie Rosse hanno saputo calarsi
immediatamente nel tipo di partita che avevano sapientemente preparato e che
erano pronti a giocare da alcuni mesi. Gioco a metà campo, togliere la
transizione e zona come se piovesse: questa la ricetta iberica per arginare gli
americani, che nonostante tutte queste misure hanno sì faticato più del
previsto, ma sono quasi sempre stati davanti, pur dando vita ad un match
combattutissimo per più di tre quarti durante i quali le due squadre sono
sempre state separate talvolta da uno, talvolta da due o tre punti ma sempre
vicine nel punteggio: un vero e proprio spettacolo per i milioni di persone
davanti alle tv di tutto il mondo, che hanno potuto gustarsi 40 minuti di
basket giocato ad un livello tecnico e fisico appartenente ad un altro mondo.
Come passare sopra infatti alla classe infinita di Pau
Gasol, MVP dei suoi, trascinatore ed interprete perfetto del ruolo di numero 4
del terzo millennio, capace di giocare spalle e fronte a canestro, dentro e
fuori con una naturalezza che ti porta a definire facili cose al limite delle
capacità umane. Buone notizie per i Lakers quindi, che ritroveranno uno
spagnolo finalmente tornato ad un livello globale al quale non ci aveva sempre
abituato durante questa stagione, in cui sono stati in molti a criticarlo per
il suo atteggiamento un po’ “soft”, del quale però si sono perse le tracce in
questi giochi, che hanno sancito anche (per restare in casa giallo viola) l’ultima
partita con la Nazionale di Kobe Bryant, che ha dato l’addio alla maglia di
Team USA così come farà di qui a pochi giorni anche coach K, del quale si sta
ancora cercando il sostituto (Doc Rivers, John Calipari e Gregg Popovich sono
tra i candidati più accreditati).
Per il resto abbiamo visto i soliti big: Durant a suo agio
anche nel ruolo di leader maximo offensivo, Lebron che finalmente ha imparato a
giocare anche per i compagni liberando le sue doti di passatore supremo e
traendo comunque vantaggio a livello personale in attacco grazie a tagli
fulminei ma precisi e semplici, ma insieme a loro sono stati decisivi i
contributi (Kobe a parte) di Chris Paul con la sua sapiente regia, opportunamente
alternata a quella di Deron Williams e ai lampi di atletismo di Russell
Westbrook, che nel basket FIBA può tranquillamente ricoprire tre ruoli per doti
fisiche e trattamento della palla. Da non dimenticare però anche gli Iguodala,
i Chandler, persino gli Anthony Davis di questo mondo, che hanno saputo o
dovuto mettersi nettamente in secondo piano per fornire un apporto più limitato
e circoscritto ma in cui si sono comunque messi in luce come pedine efficaci.
Potrebbe essere stata l’ultima volta che abbiamo visto il
vero Team USA, quello con le grandi stelle della NBA, perché si fanno sempre
più insistenti le voci che a Rio i vertici americani siano convinti a portare
una selezione formata da ragazzi under 23 ai quali dare una vetrina internazionale
(forse la massima espressione a livello cestistico dopo le Finali NBA) e ai
quali far mettere in bagaglio un’esperienza globale di gruppo come quella delle
Olimpiadi, il massimo a cui un atleta di qualsiasi sport può aspirare. Ognuno è
libero di pensarla come vuole a proposito di questa iniziativa, che lascia
alcuni (me compreso) favorevolmente colpiti e altri più critici. Personalmente non
credo che vedere all’opera ipotetici Kyrie Irving, Demarcus Cousins, Greg
Monroe, Brandon Knight, Evan Turner, Stephen Curry (e l’elenco potrebbe
continuare ancora) tutti insieme in un contesto diverso da quello NBA e che li
metta a confronto con i migliori giocatori europei ed internazionali possa fare
così male: si limiterebbero le scoppole tipo il +83 contro la Nigeria e la
competizione sarebbe in generale più aperta, inoltre con il tecnico giusto in
panchina, che sappia valorizzare nel modo giusto un gruppo di giovani ragazzi,
sono sicuro che ci divertiremmo quasi in maniera eguale alla squadra con i
Durant e i Lebron, ai quali diciamo comunque grazie: ci avete regalato l’ennesima
prova del perché amiamo questo sport.
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