martedì 20 dicembre 2011

Un saluto a Peja, quello che alla fine ce l'ha fatta

di Luca Ngoi


A vederlo così, quel ragazzo serbo, tredici anni fa non gli avresti dato una lira. Fisico normale, niente di speciale atleticamente, veloce sì ma sempre nella media, insomma il classico "impiegato" prestato alla palla a spicchi. 
Predrag, per tutti soltanto Peja, si era trasferito in Grecia a sedici anni a causa dei grandi conflitti emersi nella sua terra natale, la Serbia, e della repubblica ellenica aveva preso anche il passaporto per poter continuare a coltivare la sua più grande passione: la pallacanestro per l'appunto. Ma come riuscire a trasformare un semplice passatempo in una professione vera e propria, con quelle (scarsine) doti fisico-atletiche? Dove non arriva il fisico, semplicemente, arriva la mente e la passione, che portò quel ragazzo a lavorare più sodo di tutti e ad affinare un tiro mortifero, da molti paragonato in seguito a quello di Larry Bird, non esattamente l'ultimo dei tiratori. La strada per il greco-serbo non è per niente facile perchè in ogni squadra in cui approderà dovrà guadagnarsi col sudore il posto, ed è così prima nella Stella Rossa, l'altro pilastro di Belgrado dopo il Partizan (un'istituzione in campo cestistico e non) e in seguito al PAOK Salonicco, dove si farà notare in tutta Europa venendo premiato per ben quattro volte come miglior giocatore del campionato: un bel traguardo per uno che aveva dovuto attraversare tutte quelle difficoltà per emergere. Nel 1998 Peja poteva dirsi già arrivato, avrebbe potuto giocare ancora in Europa e tentare di vincere un'Eurolega, cosa che gli sarebbe certamente riuscita, e invece da grande anima slava quale alla fine è rimasto decide di fare il grande passo, di attraversare l'Oceano per tentare l'avventura con i professionisti americani: un azzardo totale, considerata la poca stima della quale godevano ancora i giocatori europei nella Lega più famosa al mondo, nella quale Peja si presentò con il solito fisico, ingannevole alla vista, ma anche consapevole di possedere un tiro che in pochi, anche nella patria del basket, potevano vantare.
Ai Sacramento Kings, che lo scelsero col numero 14 al primo giro del draft 1998-99 bastò un allenamento per capire che quel signore col fisico nella media, ma col tiro straordinario, abbinato ad una serie di ragazzi terribili quali Mike Bibby, Jason "White Chocolate" Williams, Chris Webber e Vlade Divac (altra grande anima slava) avrebbe potuto portarli molto lontano. E così fu, perchè quei giocatori tutti insieme esplosero, dopo due stagioni di puro ambientamento e frustrazione, passati a guardare gli altri giocare, quando nel 2000 i Kings, trascinati anche dai 20.4 punti a gara di Peja arrivarono ai playoff, e l'anno dopo riuscirono addirittura a migliorarsi approdando alle Finali di Conference contro i Lakers, troppo forti anche per il tiro da fuori del nostro uomo, che in quell'anno finì addirittura secondo nella classifica marcatori dell'intera Lega (a 24.2 punti a partita, ndr). 
Da lì in poi per Peja è un lungo girovagare, passando da Indianapolis a New Orleans, dove ebbe l'occasione di giocare con un altro formidabile playmaker come Chris Paul, fino a Toronto e infine a Dallas, ultima tappa del tour americano di Stojakovic, conclusosi peraltro nel migliore dei modi, con un titolo vinto e con più di un canestro importante durante i playoff dei Mavs, soprattutto nella serie finale contro i Lakers (sempre loro), sui quali è arrivata puntuale la vendetta. La notizia del ritiro è arrivata ieri, come un fulmine a ciel sereno, quando nessuno se lo aspettava, quando avrebbe potuto tornare in Europa, magari nella sua Serbia, e invece il vecchio Peja ha preferito salutare tutti proprio nel momento in cui gli è pervenuto il massimo alloro, l'anello di campione NBA. Ciao, impagabile Peja, stiamo ancora aspettando un europeo che tiri come facevi tu.

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